Mio nonno Angelo, quando è nato nel 1870, aveva un’aspettativa media di vita che raggiungeva a malapena i 45 anni: i rischi legati al parto, un’alta mortalità infantile, una medicina dai mezzi diagnostici e terapeutici molto scarsi (l’aspirina verrà scoperta nel 1899, la penicillina nel 1928), un’alimentazione precaria e l’assenza di una medicina preventiva impedivano spesso a donne e uomini nati prima del 1900 di raggiungere un’età che oggi viene considerata il “fiore degli anni” o al massimo la “mezza età”.
Una nostra pronipotina che nascesse nel 2050 avrebbe un’aspettativa media di vita alla nascita che supera i 90 anni: esattamente il doppio rispetto al suo antenato.
Il progressivo aumento dell’età media della nostra popolazione pone un quesito determinante a livello etico prima ancora che politico: vivere più a lungo significa prolungare la fase di “disabilità” (dall’inglese disabilty: incapacità, invalidità, infermità) e quindi di perdita dell’autonomia, o significa effettivamente vivere più a lungo in buona salute e indipendenza ?
A questo riguardo ci sono due tesi contrapposte: la prima ritiene che vivere più a lungo vuol dire semplicemente ritardare la morte di persone affette da malattie croniche e degenerative facendo sorgere un dubbio etico pesante come un macigno: la moderna medicina di punta allontana in modo artificiale e dannoso la morte nei pazienti ammalati ? La tesi contraria ritiene invece che ad aumentare sono in realtà gli anni vissuti in buona salute: grazie ad una migliore alimentazione ed a un’efficiente medicina preventiva le malattie croniche e degenerative sopraggiungono più tardi con conseguente riduzione degli anni vissuti nella malattia.
Studi recenti sembrano confermare in modo inequivocabile che nei paesi sviluppati, e purtroppo solamente in questi, non solo si vive più a lungo ma si vive più a lungo in buona salute e in autonomia. Se nei primi anni 80 la donna poteva vivere mediamente fino a 80 anni e fino a 70 in salute (e quindi 10 in “disabilità”), trent’anni dopo la donna ha un’aspettativa di vita di 85 anni di cui 80 in salute e 5 in “disabilità”: risultati di poco peggiori sono riscontrabili nell’uomo.
Le ragioni di questo dato positivo vanno cercate nel miglioramento sociale, economico e sanitario. Se da un lato grazie alle assicurazioni e alle previdenze sociali e ad un miglioramento congiunturale gli anziani hanno potuto godere negli ultimi decenni di un minimo benessere economico con effetti positivi sull’alimentazione, sull’igiene e sul comfort, la medicina e in modo particolare la medicina preventiva nello stesso periodo ha fatto passi da gigante. Il trattamento delle malattie infettive (a inizio secolo la prima causa di morte, oggi all’origine dell’1% di tutte le morti), la cura e la prevenzione delle malattie cardiovascolari e tumorali (che rappresentano oggi con ca il 65% le cause più frequenti di morte), i programmi preventivi geriatrici (attività fisica adeguata quale prevenzione delle cadute, istruzione alimentare,…), il sostegno agli anziani e alle loro famiglie attraverso le cure a domicilio e altre associazioni di aiuto, hanno influenzato in modo determinante l’aumento della quantità e della qualità della vita della nostra popolazione nell’ultimo secolo.
Purtroppo però questo ottimismo per il futuro viene almeno in parte oscurato da alcune nubi nere che si intravvedono all’orizzonte e che richiederanno uno studio serio e concertato da parte di tutti gli attori della sanità nel nostro paese (i politici, le casse malati, i medici e i pazienti stessi, anziani e non). Queste nubi nere sono rappresentate dalla diminuzione della natalità che in concomitanza con il forte incremento del numero di anziani mette in pericolo l’AVS e quindi la nostra stabilità sociale, l’aumento dei premi delle casse malati che assieme all’aumento del costo della vita, non compensato da un pari aumento delle entrate, sta mettendo sul lastrico le parti più fragili della nostra popolazione e in modo particolare gli anziani che sempre più spesso vivono sotto la soglia della povertà. Non da ultimo i deficit delle casse dello Stato che rappresentano un ostacolo difficilmente sormontabile nella pianificazione ospedaliera, nella pianificazione dei posti letto in casa anziani, e nelle cure a domicilio: in altre parole in tutto ciò che sta alla base dell’aumento della quantità e soprattutto della qualità della vita.
Nel nostro piccolo dovremo anche noi pensare all’invecchiamento della popolazione. La carenza di terreni edificabili (i cui prezzi raramente sono alla portata delle giovani coppie) e di palazzine di appartamenti (dove c’è un maggior ricambio di inquilini e dove notoriamente vivono le famiglie più giovani con figli), ha come conseguenza che nei prossimi anni ci saranno sempre meno bambini e quindi sempre più anziani nel nostro Comune. Dovremo quindi pensare alla creazione di un centro diurno (magari nelle vicinanze di una scuola/scuola dell’infanzia creando sinergie interessanti e già praticate altrove con successo), o di appartamenti protetti per quella fascia di anziani ancora autosufficienti ma non più in grado di vivere soli. Dovremo potenziare il servizio pasti a domicilio o ancor meglio dare la possibilità all’anziano di mangiare in compagnia (mensa per anziani e per scolari ?). Una maggior collaborazione con le case anziani della regione e probabilmente più avanti la progettazione di una nostra casa per anziani dovranno essere temi di studio a breve-medio termine per la nuova dirigenza politica del Comune.
L’aggregazione nelle Tre Terre ha creato molte opportunità, anche nel settore degli anziani, che dovremo saper cogliere e sviluppare per tempo.
Brenno Galli, geriatra
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